Lacrime nel vento
Cammino per la via centrale della città, è quasi Natale.
Si sentono intonare canti in tutti gli angoli, in tutte le chiese.
I commercianti ti accolgono con un sorriso e i negozi di caramelle sono strapieni di bambini che cercano qualche dolcetto in omaggio.
Sono stata anch’io bambina, ma non ricordo bene la mia infanzia.
Sembra quasi una stanza buia in fondo al lungo corridoio della mia vita, un posto nel quale tutte le mie azioni sono sbiadite e sfocate, un posto in cui il tempo è passato così in fretta che può essere racchiuso in un unico scatto.
Continuo a camminare in quella via gremita di gente.
Persone provenienti da ogni nazione, costumi e lingue camminano uno a fianco all’altra con uno stupido sorriso stampato in faccia.
Non li odio, ma non capisco perché il Natale renda tutto così lucente e trasformi le persone nelle personificazioni della gentilezza e della cortesia.
Decido di fermarmi, c’è qualcosa che mi attira: una vetrina.
Vendono libri, ma sono libri vecchi, smessi.
Non vi è nessuna ghirlanda o decorazione natalizia all’esterno, solo un’insegna logora, della quale si distinguono solo le prime due lettere: F A.
Titubante, decido di entrare.
L’aria all’interno è polverosa, la luce che proviene dall’esterno è filtrata dalla forte presenza di acari. Alla cassa, un vecchio signore, con una lunga barba bianca e quattro denti, mi sorride. Ricambio con un timido sorriso e mi metto alla ricerca di una lettura leggera, interessante e poco impegnativa.
Decido di cercare nel reparto fantasy, non il mio genere, ma comunque pieno di volumi interessanti.
La polvere regna sovrana negli scaffali, l’odore di legno ammuffito rimarca tutto il negozio.
Cerco di smuovere la polvere e noto un libro, con la copertina gialla.
Mi colpisce, come un fulmine a ciel sereno, mi smuove qualcosa dentro la testa, i ricordi iniziano a emergere come un vulcano in eruzione, come se il tappo fosse rimasto lì per troppo, troppo tempo.
Un lampo e tutto sparisce.
Mi ritrovo in una casa familiare quanto sconosciuta.
Sono io, alla finestra, con quel libro in mano, ma non sono io.
Sono, diversa. Sono una bambina.
La storia mi prendeva tanto che non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine. Mentre seguivo con attenzione la trama, che assorbiva tutta la mia attenzione, sentii un improvviso rumore che saliva dalla strada.
Ricordo quel momento. “Sarà stato un incidente” pensai. E ripresi a leggere.
Ma subito dopo ecco un altro colpo. Il vetro della finestra tremò.
Perfino il libro tremò tra le mie mani. Ma non volli a nessun costo staccarmi da quella pagina.
“Che m’importa di quello che succede in strada” mi dissi.
Al terzo colpo però è la casa intera che si scosse e traballò.
A quel punto, forse più infastidita che spaventata per quell’interruzione, mi alzai e avvicinai la faccia al vetro. Quello che vidi mi fece cadere il libro dalle mani.
Una macchina era appena esplosa, poi un’altra, ed un’altra ancora.
Poi, il silenzio più assoluto, piangevo.
Raccolsi il libro da terra, tremavo come una foglia nuda d’inverno, una foglia secca che ormai non ha più valore.
Non sapevo il perché, le lacrime scendevano da sole, lasciai il libro lì, sul davanzale di quella finestra, non l’avrei più rivisto, o almeno così pensavo.
Aprii la porta, e corsi giù per le scale, un altro boato mi fece sobbalzare. Cercavo mia madre, o mio padre, ma non riuscivo a trovare nessuno. Urlavo, ma qualcuno, la fuori, urlava più di me.
Le sirene si facevano più vicine, ma un rombo simile ad un tuono fece esplodere i vetri del piano terra.
Fui scaraventata contro il muro, battei la testa e svenni.
Mi risvegliai all’inferno, vi era fumo ovunque, ero sola.
Mi faceva male la gamba, era calda, pulsava, era bagnata.
Provai ad alzarmi ma caddi a terra, e di nuovo, fino a quando sentii due braccia forti sollevarmi e portarmi fuori.
Non era mio padre, era un ragazzo giovane, avrà avuto trentanni.
Mi sorrise, ma io non riuscii a cambiare la mia espressione facciale.
Ero impietrita, ero spaventata, volevo i miei genitori.
Mi curò la ferita alla gamba come meglio poté e un secondo dopo sparì, in mezzo alla folla.
Ero sola, nuovamente, non sapevo dove fossero i miei genitori, avevo fame; non potevo restare lì.
Mi alzai con molta fatica, avevo bisogno di trovare un posto dove mangiare. Camminai per non so quanto tempo, le strade sembravano tutte uguali, forse erano tutte uguali, zoppicavo.
Trovai un piccolo bar, il gestore, spaventato almeno quanto me, mi fece entrare e mi diede un bicchiere d’acqua dal rubinetto. Sapeva di terra e metallo.
Piansi, come non avevo mai pianto. Volevo tornare a casa, volevo il mio libro, volevo sapere dove il coniglietto sarebbe finito, volevo sapere se e quando sarebbe tornato a casa. Volevo che tutto tornasse normale.
Camminai tutta la notte. Perché erano esplose quelle macchine? Perché davanti a casa mia? Dovevo tornare lì.
Dovevo trovare le strade che mi avevano portato via dal mio libro, quelle vie che mi avevano allontanato da mia madre, quelle vie, tutte così uguali. Seguii i rumori, seguii le sirene che non smettevano di suonare.
Erano blu come il cielo, forse un po’ più blu, e rosse, rosse come il sole quando sparisce dietro la montagna.
Tornai a casa, ma non la trovai, non c’era più casa, né mamma, né papà. Non c’era il coniglietto rosa, dove era la mia casa?
Sentii tante persone piangere quella notte, vidi tante lacrime scendere. C’era una radio accesa, una voce parlava, era una voce triste, fredda, quasi meccanica.
“E’ scoppiata la guerra” diceva la voce “E’ iniziata la guerra per avere il potere. Signore e signori, questa è la guerra dei poveri, poiché solo i poveri perderanno tutto. Signore e signori, questa è la guerra degli innocenti, poiché solo gli innocenti…”
Non potevo ascoltare ancora, mi venivano le fitte allo stomaco.
Vomitai più volte e piansi.
Camminai per uno o due isolati, o forse dieci.
Dormii in piedi, ma non dormivo realmente.
Pensavo a cosa fare, a dove andare, ma la mia testa era vuota, non avevo più nulla.
Avevo solo quattordici anni e tanta paura.
Mi fermai davanti a un negozio di elettronica.
Delle dieci televisioni esposte in vetrina, solo due funzionavano ancora, ed entrambe mandavano in onda le stesse immagini.
Erano le foto di chi aveva perso la vita nelle esplosioni, quella notte.
I miei genitori non c’erano, magari erano sopravvissuti, magari mi stavano cercando.
Fu in quel momento, proprio lì, che si riaccese in me la speranza.
Forse potevo ancora riempire quell’angosciante vuoto che mi logorava dall’interno. Ma tutto si distrusse all’improvviso.
La guerra era alle porte, e i rumori iniziavano ad essere chiari: spari, bombe che squarciavano il cielo in due, e in lontananza grida.
Grida di donne, grida di madri, di uomini, di bambini. Grida che si dissolvono nel vento come polvere. E ancora persone che corrono, che cercano di salvare le proprie vite, di salvare le vite dei propri cari, di cercare un riparo, di scappare dalla crudeltà dell’uomo.
Passi, urla, esplosioni, sempre più vicini, venivano a prendermi nella notte più buia della mia vita.
Iniziai a correre, nelle gambe avevo una forza mia vista prima, la forza della paura. Corsi per metri, chilometri, senza fermarmi.
Corsi verso mia madre, corsi verso il cielo, il vento mi trasportava, mi cullava e mi allontanava dalle mie paure.
Ma non ero abbastanza veloce, come si può essere più veloci della luce, pensai.
Le luci mi raggiungevano, luci rosse, luci di morte; una mi passò così vicina che potevo sentirne il calore. Poi vidi un’altra luce, piccola, poi sempre più grande. Veniva verso di me, veniva a darmi il suo caldo abbraccio.
Poi nero.
Mi svegliai in ospedale, era tutto così bianco.
Mi faceva male ogni singola cellula, dal bacino in su, impazzivo dal dolore.
Provai a muovermi ma l’unica cosa che riuscii a muovere fu il quinto dito della mano destra, e subito mi si avvicinò un infermiere.
Mi cambiò la flebo e andò via con un sorriso.
Passarono velocemente i giorni, ma non riuscivo a sentire le mie gambe. Dove erano le mie gambe?
Le avevo perse, insieme a tutto ciò che amavo. Avevo perso la voglia di vivere, avevo perso il mio libro, la mia famiglia, la mia casa, la mia terra.
Sono in una libreria, polverosa e ammuffita.
Spingo la mia carrozzella fino al bancone, e mostro il libro.
“Quanto le devo?” chiedo con un accenno di sorriso.
Il vecchio uomo solleva lo sguardo, e dopo un qualche istante esclama “Mi chiedevo se qualcuno avrebbe mai cercato di comprare i libri da quegli scaffali! Te lo regalo, non vale più molto ormai!”
“La ringrazio” rispondo “ma questo ammasso deforme di pagine è la mia vita, tutta la mia vita, quindi se per lei va bene, vorrei acquistarlo”.
Sono fuori dalla libreria, all’aria aperta.
Strano quanto la mia vita costi così poco, ma una vita può valere davvero qualcosa?
Continuo a muovermi tra la folla, avvicinandomi a un parco e, cercando, riesco a trovare riparo sotto un grosso albero, una quercia credo, non sono mai stata brava nel riconoscere gli alberi.
La sua grande chioma mi protegge.
Apro finalmente il libro, sento l’odore di vecchio delle pagine arrivare al mio naso, inebriare i miei sensi.
Pagina sessantatré, capitolo nove, il coniglietto rosa torna a casa.
Forse la mia vita non è ancora finita.