Racconti

L’orsacchiotto

Giorno uno: Apro gli occhi, mi guardo attorno ma non riconosco nulla.
Oggi è il quattro agosto ma nulla di quel che vedo, mi fa pensare a qualcosa di reale. Né un oggetto, né un mobile, nulla. Mi muovo ma rimango fermo, è tutto così surreale.
Provo a urlare ma l’unico suono che le mie orecchie riescono a percepire è quello di una vecchia caffettiera, che emette un fastidioso stridio.
Passano le ore, ed io rimango immobile al centro della sala; ne approfitto per dare un’occhiata in giro: nulla di familiare.
Un vecchio scrittoio, un baule impolverato, un vecchio tappeto adagiato su un pavimento di legno, ormai logoro.
Provo a guardare davanti a me e finalmente mi muovo, cadendo faccia a terra. Mi rialzo rintontito e dopo due passi barcollanti riprendo il possesso del mio corpo; sono in gioco.
Mi muovo come un ubriaco, tocco i muri ma mi sento rallentato. Sento le mie mani pesanti, le tiro all’altezza del viso, la luce è scarsa. Sono sporche, sporche di sangue. Continuo a camminare ma non nel pavimento, cammino nel soffitto, vedo tutto al contrario, non riesco a capire nulla di quello che ho attorno, né di quel che mi succede.
Arrivo in una stanza vuota, spoglia, bianca. Mi guardo attorno per cercare una porta ma nulla. Mi giro verso il centro della stanza e vedo un tavolo. Vi è un orsacchiotto sopra, un innocuo orsacchiotto.
Sento dei passi dietro di me, passi metallici, passi sordi.
Mi giro e vedo tutto nero.
Buio.


Giorno due: Mi sveglio a terra, un dolore lancinante m’invade in tutto il corpo, parte dalla testa, lo so.
Apro gli occhi ma vedo solo da una fessura; mi tocco la faccia e capisco che qualcosa non va. Mi manca un occhio.
Urlo ma dalla mia bocca non esce altro che aria, calda.
Mi muovo, e come il giorno precedente, sento quel fastidioso stridio della caffettiera. Non smette un attimo e mi s’imprime nella mente come fosse un marchio, infuocato.
Cerco l’uscita ma i corridoi sono come labirinti nella mia mente, il sangue è ovunque e senza un occhio vedo molto meno.
Seguo il rumore della caffettiera ma sembra essere ovunque, impregnato nelle pareti. Vedo una stanza bianca, con un tavolo di legno. Sopra vi è un orsacchiotto, senza un bottone, gli manca un occhio.
Sento altri passi, più forti, più decisi. Vedo un’ombra alle mie spalle, un’ombra non umana, un’ombra allungata, senza volto; cerco di ripararmi come posso, ma vedo tutto nero.
Buio.

Giorno tre: Mi sveglio e apro gli occhi, ma il risultato è sempre lo stesso.
Mi tocco la faccia, ma non trovo gli occhi. Piango ma non escono lacrime. Voglio morire, ma non saprei neanche come uccidermi.
Gattono come un bimbo in fasce, cerco di farmi strada tra quei corridoi maledetti. Sembra tutto un incubo, un brutto sogno, ma è tutto così, reale.
Cammino per minuti, forse ore, sono lento, sono debole, morto che cammina.
Trovo lo stipite di una porta, la varco. Continuo per tre, forse quattro metri e lo sento. Sento qualcosa di duro per terra.
È un piede, di un tavolo.
Provo ad alzarmi e trovo l’orsacchiotto. Lo tocco, ma non sento bottoni. Sento un odore, di carbone, e poi passi, i soliti passi, ma hanno un ritmo asimmetrico, irregolare.
Ta Bum, Ta Bum.
Buio.

Giorno quattro: Buio e silenzio. Non vedo nulla, non sento nulla, ma ormai conosco a memoria quei corridoi, le scanalature del legno, l’odore di morte che trasudano quelle pareti.
Cerco la morte, cerco quella stanza bianca, quell’orsacchiotto, quel tavolo, quei passi. Eccoli, ecco tutto ciò che desidero, aspetto il nero definitivo, quello che non ti fa sentire nulla. Sento le vibrazioni dei passi sul legno. Qualcuno mi alza, l’ho ad un palmo dalla faccia, posso sentire il tanfo del suo respiro, penso che questo sarà l’ultimo dei miei ricordi.
Mi mette l’orsacchiotto in mano, lo tasto; non ha le orecchie. La caffettiera non smette, ma io non sento, com’è possibile che riesca a percepire il suono? E’ solo una mia deviazione mentale?
Pensa, mi dico, pensa.
Buio.

Giorno cinque: Sono vivo. Ma più morto che vivo.
Non mi reggo in piedi, sono incrostato di sangue dalla testa ai piedi.
Puzzo, sono lercio, di sudore, di urina, di feci, di vomito.
Sono un cadavere con un cuore pulsante, ecco cosa sono.
Striscio nei soliti corridoi: destra, sinistra, sinistra destra. Sento lo stipite.
Mi aggrappo e spingo con le gambe.  Cerco l’orsacchiotto e lo trovo. Ha la testa staccata. Ma io non ho la testa staccata.
In quell’istante sento una lama cingermi il collo, un abbraccio quasi. Letale.
Prego, prego gli dei ai quali non ho mai creduto.
Rivoglio la mia vita, la mia casa in quella palazzina, la mia famiglia, rivoglio me stesso.
Sento la lama nella carne, mi trapassa, buio.

Giorno sei: Apro gli occhi, vedo, sento, non provo dolore.
Il mio soffitto, il mio letto, il mio mondo.
Guardo il cellulare: è il 4 agosto. Era tutto un incubo, un brutto sogno. Mi alzo, corro. Esco dalla mia stanza. Sul tavolo c’è un pacchetto da parte di qualcuno, per me. C’è il mio nome nel bigliettino.
Scarto il regalo: un orsacchiotto. Non può essere.
In quel momento sento un rumore dalla cucina.
È la caffettiera, emette un famigliare stridio.
Impazzisco, apro la finestra, il vento mi soffia in faccia, guardo giù.
Otto piani, otto piani e sarò libero.
Mia madre mi chiama, mi cerca, ma io non rispondo, voglio volare, voglio essere libero.
Volo.
Buio definitivo.

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